Secondo il nostro codice penale, costituisce reato far credere a taluno di “aver le mani in pasta” presso la Pubblica Amministrazione, in modo tale da poter procurare un’utilità dietro il pagamento di un corrispettivo.
La norma di riferimento è l’articolo 346 del codice penale, rubricato come “Millantato credito”, secondo cui:
“Chiunque, millantando credito presso un pubblico ufficiale, o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da € 309 a € 2.065.
La pena è della reclusione da due a sei anni e della multa da € 516 a € 3.098, se il colpevole riceve o fa dare o o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare”.
La norma è posta a salvaguardia del prestigio della Pubblica Amministrazione, in quanto l’attività svolta dai funzionari risulta screditata dalla apparente corruttibilità di costoro, così come già precisato dalla Cassazione (Cass. VI, 28.05.1984, n. 4928).
Quanto alla casistica, è stato ritenuto sussistente il reato in questione nella condotta di millanteria dell’avvocato rivolta non al potenziale cliente, bensì ai familiari del medesimo, poiché, in ogni caso, si tratta di una condotta ai danni del prestigio della P.A. (Cass. I, 06.09.2013, n. 36676).
La fattispecie in oggetto, invece, non è stata ritenuta integrata nell’ipotesi di millantato credito presso personaggi politici che non rivestano la qualità di pubblici ufficiali (Cass. VI, 22.12.2004, n. 49048).
Avv. Tommaso Barausse